La cuccumella: il caffè che l’Italia ha dimenticato (e che forse dovrebbe riscoprire)

La cuccumella caffè non è solo un oggetto del passato: è un metodo che ha segnato la storia del rito italiano del caffè. Un metodo lento, napoletano e sorprendentemente francese: la storia di come gli italiani preparavano il caffè prima della moka.


Per milioni di italiani, il mattino ha il suono della moka. Quel borbottio familiare, leggermente ansimante, che arriva dalla cucina e si insinua nei vani scala dei condomini. Un suono così presente da sembrare eterno.

Eppure c’è stato un tempo, non molto lontano, in cui l’Italia si svegliava con un altro rumore: non il vapore della moka, ma il sibilo delicato della cuccumella, la “napoletana” che napoletana non era affatto.

Cuccumella napoletana smontata con le sue parti: bricco inferiore, bricco superiore, filtro e coperchio.

Un’illusione collettiva sulla cuccumella caffè (smentita da un francese)

Molti sono convinti che la cuccumella sia nata a Napoli. Qualcosa di profondamente partenopeo, quasi genetico.

Invece no: il suo nome ufficiale la tradisce — cafetière Morize, inventata nel 1819 dall’artigiano parigino Jean-Louis Morize.

Napoli però l’ha adottata con tale convinzione da trasformarla in simbolo cittadino. Il nome cuccumella deriva da cuccuma, il vaso di rame del latino cucuma, citato persino da Petronio. Una parola romana per un oggetto francese, diventato icona napoletana.

Un paradosso perfetto, che però racconta bene la capacità italiana di prendere in prestito, trasformare e far proprio (leggi anche la tradizione del caffè a Napoli).

Anatomia di un rito quotidiano

La cuccumella è disarmante nella sua semplicità: cinque pezzi di metallo che si incastrano con logica elementare. Nata in rame nel 1819, trasformata in alluminio dal 1886, ha attraversato un secolo e mezzo di storia domestica italiana.

Il suo funzionamento è un piccolo rituale:

La caldaia: la parte inferiore, con un foro che fischia quando l’acqua bolle.
Il filtro: riempito di caffè macinato.
Il recipiente superiore: inizialmente capovolto, pronto a raccogliere l’infuso.

Quando il foro sibila, si spegne la fiamma. Si aspetta un attimo — già questo rivela il carattere del metodo — e si compie il gesto chiave: capovolgere la caffettiera, prendendola per i due manici.

Quello che era sotto va sopra. E la gravità compie il miracolo.

L’acqua scende lentamente attraverso il caffè, goccia dopo goccia. Senza pressione né vapore forzato: solo tempo e fisica elementare. Cinque minuti, a volte dieci.

Il tempo è parte del sapore.

Il gusto prima della moka: più dolce, più morbido, più… filtrato

Il caffè della cuccumella era lontano dall’idea moderna di “caffè italiano”. Somigliava più a un caffè filtro:

  • Meno corpo e meno amaro
  • Più morbidezza e delicatezza
  • Note dolci, fruttate, a volte complesse
  • Un profilo aromatico più “pulito”

C’è un dettaglio che sfugge spesso: l’Italia non è sempre stata un Paese da caffè amaro. Quella preferenza — ciò che oggi chiamiamo “sapore italiano” — è una costruzione recente, nata con la diffusione della moka e poi dell’espresso.

La cuccumella appartiene a un’epoca diversa: un caffè con più sfumature, meno aggressivo, più lento. Più rispettoso del chicco.

La variante più raffinata (che oggi chiameremmo specialty)

Tra i napoletani esisteva anche una tecnica meno nota ma molto efficace: aspettare che l’acqua smettesse di bollire, montare la caffettiera a fiamma spenta e soltanto allora capovolgerla.

Bollitore inferiore della cuccumella sul fornello secondo il metodo off-boil.

Questa estrazione off-boil evitava di “cuocere” il caffè e preservava note più delicate — esattamente il principio di molti metodi filtro moderni: controllo, precisione, rispetto del chicco.

Senza saperlo, l’Italia aveva già intuito un approccio “specialty” un secolo fa.

La moka come rottura (e non come evoluzione)

Nel 1933 arriva lei: la Moka Express, la rivoluzione da cucina.

È veloce, pratica, moderna. Perfetta per un Paese che sta entrando nel boom economico. La cuccumella, invece, richiede presenza: devi ascoltare il fischio, attendere il momento giusto, capovolgerla con attenzione.

La moka semplifica il rito. Non chiede presenza, solo pazienza meccanica. Nel dopoguerra ne vengono vendute centinaia di milioni. È indistruttibile, economica, iconica.

La cuccumella non poteva competere. Non con il mito dell’Italia efficiente, con la modernità che avanzava, con la fretta che diventava normalità. E così, quasi senza accorgercene, abbiamo lasciato andare un gusto per abbracciarne un altro.

Il cuppetiello e Sofia Loren: memoria di un gesto

Il rito tradizionale prevedeva anche il cuppetiello: un piccolo cono di carta che si posava sul beccuccio per trattenere gli aromi durante i lunghi minuti di percolazione. Un’attenzione semplice, quasi poetica, per qualcosa che oggi verseremmo in tazza senza nemmeno guardare.

Nel 1967, nel film Questi fantasmi, Sofia Loren dedica un monologo alla cuccumella: l’acqua che deve bollire “almeno quattro minuti, eh!”, il mezzo cucchiaino di polvere fresca “per aromatizzare l’acqua nel momento della colata”, il cuppetiello da non dimenticare.

In quei gesti c’è tutta l’Italia dell’epoca: attenta, orgogliosa, metodica, innamorata dei suoi piccoli riti quotidiani. E già nostalgia di un mondo che stava sparendo. Perché nel 1967 la moka aveva già vinto.

La standardizzazione del gusto italiano

Con la moka, il gusto nazionale cambia radicalmente:

  • Miscele più scure
  • Più robusta
  • Più corpo
  • Più amaro

Un profilo che oggi consideriamo “tradizione italiana”, ma che rappresenta solo gli ultimi settant’anni della nostra storia. È una parentesi. Una parentesi lunga, certo. Ma pur sempre una parentesi.

Un’abitudine più che un’eredità.

Il paradosso: la cuccumella era più vicina ai metodi moderni

Mentre la moka utilizza pressione e vapore — surriscaldando, estraendo con forza, a volte bruciando — la cuccumella fa una cosa radicale: lascia che l’acqua coli per gravità.

Oggi che riscopriamo i metodi filtro, la precisione, le estrazioni controllate, la cuccumella sembra improvvisamente familiare. Senza forzature: solo gravità e acqua calda. Esattamente quello che usiamo nei V60, nei Chemex, in molti altri metodi “terza ondata”.

Gli italiani del primo Novecento bevevano un caffè che potremmo definire — senza esagerare — un proto-V60 napoletano.

Perché oggi ha senso riscoprirla

Non è nostalgia.

La cuccumella torna perché offre un profilo aromatico diverso, più delicato, più ampio rispetto alla moka. È semplice, ecologica, economica. E produce un caffè che non assomiglia né all’espresso né alla moka.

È un gusto che ha un’identità propria. Una memoria da cui possiamo ancora imparare.

Una domanda finale (provocatoria ma necessaria)

Siamo sicuri che “il vero caffè italiano” sia solo quello forte e amaro a cui siamo abituati?

O abbiamo semplicemente dimenticato com’era prima che la modernità lo rendesse più veloce?

La cuccumella non è un retaggio del passato. È una storia che vale ancora la pena ascoltare. E come tutte le memorie importanti, prima o poi ritorna.


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