Per decenni abbiamo pensato che il caffè fosse un gusto unico, una tradizione intoccabile. Un espresso corto, intenso, amaro. Una moka al mattino. Una tazzina che sa sempre “di caffè”, ovunque tu vada in Italia.
Eppure, fuori dai confini italiani — e sempre più anche dentro — sta accadendo qualcosa. Una rivoluzione silenziosa che cambia il modo in cui coltiviamo, tostiamo ed estraiamo il caffè. Un movimento che mette al centro non la routine, ma il chicco: la sua storia, il suo gusto, la sua identità.
Questa rivoluzione ha due nomi: specialty coffee e third wave coffee. Spesso vengono citati insieme, ma raccontano due cose diverse. Due parti della stessa trasformazione.
Le tre onde del caffè: una breve storia
Per capire dove siamo, dobbiamo capire da dove veniamo. La storia moderna del caffè si divide in tre fasi, tre “onde” che hanno trasformato il modo in cui il mondo beve questa bevanda.
La prima onda: il caffè come commodity
La prima onda inizia nella seconda metà dell’Ottocento e domina fino agli anni Sessanta del Novecento. Il caffè diventa un prodotto di massa: economico, standardizzato, indifferenziato. Negli Stati Uniti nascono marchi come Folgers e Maxwell House, che vendono caffè premacinato in lattina. In Europa si diffondono i grandi torrefattori industriali.
Il caffè della prima onda non ha origine, non ha storia, non ha identità. È solo caffè: amaro, forte, sempre uguale. L’obiettivo è il prezzo basso e il gusto costante.
La seconda onda: l’origine e l’esperienza
La seconda onda nasce alla fine degli anni Sessanta a Berkeley, California, con Peet’s Coffee & Tea. Alfred Peet inizia a importare caffè di qualità superiore, a tostarlo artigianalmente e a parlare di origini geografiche: Colombia, Etiopia, Sumatra.
Da Peet’s nascono i fondatori di Starbucks, che dal 1971 trasformano il caffè in un’esperienza. Non più solo una bevanda, ma un luogo, un rituale, un linguaggio. La seconda onda porta l’espresso e il cappuccino nelle case e nei bar di tutto il mondo — ma il caffè resta un prodotto da tostare scuro, da miscelare, da correggere. L’origine è un’etichetta, non una firma.
La terza onda: il caffè come artigianato
La terza onda nasce come evoluzione naturale — e in parte come reazione — alle due precedenti. Il termine “third wave coffee” compare per la prima volta nel 1999, in un articolo di Timothy J. Castle sulla rivista Tea & Coffee Asia. Nel 2003 Trish Rothgeb lo riprende e lo definisce con precisione, ispirandosi alle tre ondate del femminismo: ogni onda come superamento della precedente.
La terza onda tratta il caffè come un prodotto agricolo, non come una commodity industriale. Ogni chicco ha una storia: la piantagione, l’altitudine, la varietà botanica, il metodo di lavorazione, il nome del produttore. La tostatura diventa leggera, pensata per esaltare gli aromi naturali invece di coprirli. L’estrazione diventa scienza: bilance, timer, temperature controllate.
Negli Stati Uniti nascono i “Big Three” della terza onda: Intelligentsia Coffee a Chicago, Stumptown Coffee Roasters a Portland, Counter Culture Coffee a Durham. In Europa il movimento arriva nel 2005, quando apre Flat White a Londra. Nel 2008 James Hoffmann, futuro campione mondiale di baristi, fonda Square Mile Coffee Roasters e diventa uno dei volti più riconoscibili del movimento.
Cos’è lo specialty coffee

Lo specialty coffee non è una moda: è una categoria di qualità definita da parametri oggettivi.
Il termine fu coniato nel 1974 da Erna Knutsen, in un articolo sulla rivista Tea & Coffee Trade Journal. Knutsen lo usò per descrivere chicchi di qualità superiore, prodotti in microclimi speciali, con caratteristiche aromatiche distintive.
Oggi la definizione è codificata dalla Specialty Coffee Association (SCA). Un caffè è considerato specialty se ottiene un punteggio di almeno 80 punti su 100 nella valutazione sensoriale condotta da assaggiatori certificati, i Q-graders. I caffè tra 80 e 84,99 punti sono classificati “Very Good”, quelli tra 85 e 89,99 “Excellent”, quelli sopra i 90 “Outstanding”.
Ma il punteggio non è l’unico criterio. Un caffè specialty deve avere un massimo di 5 difetti ogni 350 grammi di chicchi, deve provenire da raccolte selettive a mano, deve essere tracciabile fino alla piantagione d’origine.
Il risultato è un caffè che non ha bisogno di essere “corretto” con tostature molto scure o miscele pesanti. Anzi: più la tostatura è chiara, più emergono gli aromi naturali del chicco. Note che possono andare dai frutti rossi agli agrumi, dai fiori bianchi al miele, dal cioccolato al caramello, dalle spezie dolci alle erbe aromatiche.
È come passare da un vino da tavola a un vino da vigneto singolo: stesso prodotto, mondo completamente diverso.
Specialty e Third Wave: qual è la differenza
I due termini vengono spesso usati come sinonimi, ma indicano cose diverse.
Lo specialty coffee è una categoria di qualità. Si riferisce al chicco: alla sua coltivazione, alla sua lavorazione, al suo punteggio sensoriale. È un dato oggettivo, misurabile, certificabile.
La third wave coffee è un movimento culturale. Si riferisce all’approccio: alla trasparenza sulla filiera, alla tostatura artigianale, al brewing controllato, alla sostenibilità, all’educazione del consumatore. È una filosofia, un modo di pensare il caffè.
Senza lo specialty, la third wave non esisterebbe: non ci sarebbe materia prima di qualità su cui costruire. Senza la third wave, lo specialty sarebbe rimasto un segreto per pochi addetti ai lavori: mancherebbe il movimento culturale che lo ha portato al pubblico.
Insieme hanno cambiato il modo in cui il mondo pensa al caffè.
I pilastri della terza onda
La third wave coffee si fonda su alcuni principi che la distinguono dalle onde precedenti.
Trasparenza totale
Non basta sapere che un caffè viene dalla Colombia. La terza onda vuole sapere da quale regione, da quale piantagione, da quale produttore. Vuole conoscere la varietà botanica (Bourbon, Typica, Gesha), l’altitudine di coltivazione, il metodo di lavorazione (lavato, naturale, honey). Ogni informazione aggiunge significato alla tazza.
Tostatura artigianale
I torrefattori della terza onda tostano in piccoli lotti, con controllo preciso di temperatura e tempo. L’obiettivo non è creare un gusto “forte” o “intenso”, ma far emergere le caratteristiche uniche di ogni origine. Le tostature sono generalmente più chiare di quelle tradizionali italiane, perché una tostatura troppo scura copre gli aromi invece di esaltarli.
Brewing controllato
Preparare il caffè diventa un atto di precisione.
V60, Chemex, Aeropress: ogni metodo ha i suoi parametri ottimali. I baristi della terza onda usano bilance al decimo di grammo, timer, termometri. Misurano il rapporto tra caffè e acqua, il tempo di estrazione, la temperatura. Non è ossessione: è rispetto per la materia prima.
Sostenibilità reale
La terza onda promuove il rapporto diretto con i produttori, prezzi più equi, tracciabilità verificabile. Non si tratta solo di certificazioni, ma di relazioni: torrefattori che visitano le piantagioni, che conoscono i coltivatori per nome, che pagano premi di qualità.

Educazione del consumatore
La terza onda non vende solo una bevanda: vende conoscenza. Spiega perché un caffè etiope sa di frutti di bosco e uno brasiliano di cioccolato. Insegna a riconoscere una buona estrazione da una cattiva. Trasforma il consumatore in degustatore consapevole.
Perché in Italia siamo rimasti indietro
L’Italia ha inventato l’espresso. Ha creato la moka. Ha costruito un’intera cultura attorno alla tazzina. Eppure la terza onda è arrivata tardi, e fatica ancora a diffondersi.
Il motivo è semplice: abbiamo un’identità di gusto fortissima. Per generazioni abbiamo associato il “buon caffè” a caratteristiche precise: corpo intenso, tostatura scura, nota amara, miscele con robusta, estrazione veloce. È un gusto che piace, che rappresenta un’epoca e un’abitudine condivisa.
Ma non è l’unico gusto possibile. E non è nemmeno il più antico.
Prima della moka — che arriva solo nel 1933 — gli italiani bevevano un caffè diverso. La cuccumella napoletana, inventata nel 1819, produceva un caffè filtrato per gravità: più dolce, più delicato, più aromatico. Era, in un certo senso, un proto-V60 napoletano. Un caffè che oggi riconosceremmo come vicino alla terza onda.
La tradizione italiana del caffè forte e amaro è più recente di quanto pensiamo. È una parentesi lunga settant’anni, non un’eredità millenaria — ma è solo una delle possibili interpretazioni del caffè.
Come cambia il gusto nello specialty coffee
Chi assaggia uno specialty per la prima volta nota subito tre differenze.
Meno amaro
Un caffè specialty ben estratto non è amaro: è dolce, fruttato, complesso. L’amaro che associamo al caffè tradizionale è spesso il risultato di tostature troppo scure o estrazioni troppo lunghe.
Più aromatico
Ogni origine ha un carattere diverso. Un caffè etiope può avere note di bergamotto e gelsomino. Un guatemalteco può ricordare il cioccolato fondente e le mandorle. Un keniota può essere agrumato e vivace. Sono differenze reali, non invenzioni di marketing.
Più pulito
Soprattutto nei metodi filtro, il caffè specialty ha una trasparenza che permette di percepire ogni sfumatura. Nessun retrogusto sgradevole, nessuna nota di bruciato, nessuna pesantezza.
Non sempre è “meglio” o “peggio” del caffè tradizionale. È diverso. E richiede apertura mentale.
Come iniziare senza spendere troppo
Non serve comprare subito un macinacaffè da 500 euro o un V60 in ceramica giapponese. Il percorso può essere graduale.
Il primo passo è comprare un caffè specialty da una torrefazione italiana. Meglio iniziare con una quantità piccola, 100 o 250 grammi, per capire se il gusto piace. Le origini più accessibili per chi inizia sono Brasile e Colombia: profili morbidi, note di cioccolato e nocciola, acidità contenuta.
Il secondo passo è sperimentare con l’attrezzatura che già si ha.

Una moka o una french press possono dare risultati sorprendenti con un caffè di qualità. L’importante è usare acqua buona — non troppo dura, non troppo leggera — e rispettare i tempi di estrazione.
Il terzo passo è assaggiare senza zucchero, almeno la prima volta. Lo zucchero copre gli aromi e non permette di capire davvero cosa si sta bevendo. Se il caffè è buono, non ne avrà bisogno.
Il macinacaffè può venire dopo: è l’investimento che cambia davvero la tazza, ma non è indispensabile per iniziare.
Lo specialty coffee in Italia oggi
Il movimento sta crescendo più di quanto sembri. Nelle grandi città — Milano, Torino, Roma, Firenze, Napoli, Bologna — sono nate decine di caffetterie specialty negli ultimi dieci anni. Torrefazioni artigianali italiane producono caffè di qualità eccellente, spesso premiati in competizioni internazionali.
Esistono e-commerce italiani che vendono specialty selezionati da tutto il mondo, con spedizioni rapide e prezzi accessibili. I marketplace europei hanno reso disponibili caffè che un tempo erano introvabili.
L’Italia non è più indietro: sta semplicemente scoprendo una nuova dimensione del caffè. Una dimensione che non cancella la tradizione, ma la arricchisce.
Una rivoluzione silenziosa
Lo specialty coffee e la third wave non stanno sostituendo il caffè italiano. Lo stanno affiancando. Sono un invito a esplorare, non a cambiare identità.
Non si tratta di abbandonare la moka o l’espresso al bar. Si tratta di aggiungere possibilità: un caffè filtro la domenica mattina, un monorigine etiope per gli ospiti, una tostatura chiara da provare per curiosità.
Come tutte le rivoluzioni silenziose, non cancella il passato. Lo arricchisce.
E in un Paese che del caffè ha fatto un’arte, forse vale la pena conoscere anche questa nuova forma di bellezza.
Continua il viaggio
Se vuoi esplorare i metodi di estrazione alternativi, leggi la nostra guida completa ai metodi di estrazione. Per capire perché il macinacaffè è più importante della macchina, c’è la nostra guida al macinacaffè. E se vuoi riscoprire un pezzo di storia italiana dimenticato, esplora la cuccumella: il caffè che l’Italia ha dimenticato.